E i viaggi dell’infanzia

1240207_10202118931959281_986821384_nHo iniziato a viaggiare quando dovevo ancora nascere. Perché nella pancia di mia madre ho macinato chilometri, da Crotone a Reggio Calabria e ritorno, passando per Cervara di Roma, Tivoli, Roma, Subiaco e tutta la provincia romana.

Una volta mia madre ha deciso di prendere la macchina di papà, una macchina vecchia, vecchissima e con diversi problemi. E decise di andare a Reggio per trovare nonna. Al ritorno è rimasta bloccata vicino una delle  gallerie di Bagnara. Ogni volta che passo da lì mi si stampa un gran sorriso in faccia, pensando a mia madre incinta e quasi disperata perché la macchina si era fermata. Mia madre era soprannominata “commessa viaggiatrice”, perché macinava chilometri.

Photo by Jesse Bowser on Unsplash

Spesso quando andava a Reggio ci portava con lei, e quando arrivavamo a Bagnara, verso le 7 di sera, all’imbrunire e all’orario dell’accensione delle luci, il panorama che vedevamo dai ponti di Bagnara era fantastico. Ogni volta che mi ritrovo a fare quella strada, allo stesso orario, ripenso alla gioia di arrivare a Catona, da nonna, dal cane Felicia e dalle costruzioni in legno dello zoo. Oggi è diverso. In quella casa non c’è nonna, non c’è mamma, ma c’è il loro ricordo. C’è il loro profumo e la loro “essenza”. Quando entro in casa mi sento a casa. Questo anche grazie a Gabro, la mia casa. Perché c’è una categoria per cui la casa è un luogo fisico, un posto che fa star bene, e invece c’è un’altra categoria per la quale la casa è la persona. Per me, la ragazza senza radici, la casa è la persona.  Ecco perché non ho problemi ad adattarmi, a vivere in un posto nuovo. So che la mia “casa”, Gabriele è con me. D’altronde ha ragione Stephen Littleword, nel suo “Piccole cose” in cui parla delle case. E scrive che “le persone sono un rifugio, e tra tutti alcune, una casa. Casa dove riposano i pensieri, dove non c’è da calcolare, misurare, soppesare. Una casa dove puoi mettere in pigiama la mente, i riflessi e goderti il tepore di un camino acceso. E’ il cuore.
Ci son persone così, così vicine che son casa, calore, camino acceso… e tu stai in pantofole a goderne, spettinato, arrabbiato o felice, e riposi dal mondo, dai perchè.
Persone così, son amici speciali per cui vale la pena di sperare, vivere e lottare.”

1936483_1177972053944_7863609_nIl “vizio” del viaggio era già “instillato” nei nostri geni. Anche perché i miei genitori hanno sempre amato mettersi in auto per raggiungere posti meravigliosi. Grazie a loro abbiamo visto Padova, Vicenza, San Marino, Mantova e tutti i parchi di divertimenti del paese. Da Fiabilandia a Gardaland, passando per Mirabilandia. Riuscivano a unire la bellezza dei posti con il divertimento per noi. Così tra un giro sulle tazze e una visita alle case del terrore, potevamo vedere l’Italia. Il lago di Garda per esempio. Siamo arrivati da Reggio Calabria, dove eravamo soliti passare una parte delle vacanze estive. E lui, il lago era splendido. Le case si specchiavano sull’acqua e una leggera brezza ci accarezzava. Proprio lì, a Garda ho perso la mia bambola: Cuore caldo. Durante la notte mi svegliavo come uno zombie per cercare Cuore caldo nel letto, lei puntualmente si lanciava fuori dalle coperte. In realtà quella è stata l’ultima vacanza che ho passato con la bambola. L’ho dimenticata sul letto a castello dell’albergo.

1457763_10202518415906130_721753_nGrazie a i miei genitori ho iniziato ad assaporare la bellezza del viaggio. Delle alzate alle 4 di mattina e l’odore nauseabondo della macchina a quell’ora, le cassette di Franco Battiato e Little Tony che ci accompagnavano per tutta la durata del tragitto, con la Donna cannone e Alice di Francesco De Gregori. Se chiudo gli occhi mi sembra di sentire la cassetta di Giubbe rosse, con una versione memorabile di Alexander Platz. E mi sembra di sentire l’odore del caffè del bar. Ho amato chiedere di andare a bagno e il cibo o l’acqua. E le fermate all’autogrill, era bello scendere assonnata dall’auto ed entrare nel bar. Vedere i giocattoli e chiedere le caramelle gommose. Una delle poche cose che mangiavo. Una volta ci siamo fermati in un ristorante, ho ordinato pasta e patatine e insalata. Ho mangiato solo le patate, e l reazione di mia madre è stata unica: “Non andiamo via fino a quando non finisci l’insalata”. Ho pianto tantissimo, mi sono disperata. Ma alla fine ho mangiato l’insalata.

Dei viaggi in auto ricordo l’odore del pane misto a quello del deodorante. Era quasi come se fosse il profumo della libertà, quel profumo che mi sembra di sentire ogni volta che preparo la valigia per partire. E come un rito antico, prima di iniziare il viaggio cerco di assaggiare un pezzo di cioccolata Kinder, la stessa che mangiavo seduta sul sedile posteriore dell’auto quando partivamo.

428779_10200251569276381_364109593_nAmo viaggiare in auto, osservare dal finestrino il cambiamento del paesaggio e della natura, vedere le facce degli altri viaggiatori, in una sorta di solidarietà da strada per il traffico, il caldo e le condizioni delle strade. Sarà per questo che non amo molto viaggiare in aereo. Mi produce ansia, certo lo prendo, altrimenti non potrei vedere posti nuovi, ma il momento del decollo è quasi drammatico. La prima volta che ho preso l’aereo è stata per andare a Praga. Era il novembre del 2006, con me la mia “casa”. Quando siamo decollati ho stretto il suo braccio così forte che la mano mi faceva male. Stessa cosa per un viaggio che ho fatto per Roma. Sarei dovuta salire in pullman, ma quella mattina, come tante altre prima di prendere un pullman, non mi sono svegliata. Da qui la decisione di partire in areo. Accanto a me c’era un ragazzo con uno smartphone, si è scatenato con i selfie e in due o tre c’ero anch’io. Al momento del decollo ho afferrato il suo braccio. E ho stretto così forte da lasciargli lividi scuri. In compenso ha potuto far vedere al mondo la povera pazza seduta accanto a lui, colei che aveva distrutto il suo povero braccio ossuto. Adesso ho un metodo infallibile: dormire.

L’esperienza più drammatica in aereo è stata quando sono partita per l’Egitto. L’aeromobile ha fatto 45 minuti di ritardo, io e gli altri passeggeri eravamo assiepati nell’aereo, senza aria condizionata. A un certo punto una donna si è alzata, voleva scendere. Ha spintonato i passeggeri e l’equipaggio e si stava dirigendo al portellone che nel frattempo era stato aperto. Poi per fortuna il compagno l’ha calmata, si è seduta e ha cominciato a sudare. In quel momento, ho pensato che mai e poi mai avrei voluto avere quella reazione. Nonostante il caldo, nonostante la sensazione di essere rimasta bloccata in uno spazio angusto. Ecco perché quando salgo su un aereo cerco di controllarmi. Anche quando incontriamo turbolenze, oppure quando il pilota per le condizioni meteo non riesce ad atterrare. Immagino di essere seduta sulla spiaggia con i piedi nell’acqua del mare e respiro. Dell’aereo temo il vuoto d’aria, non sono stata mai amante delle giostre definite “pericolose”, perché odio la sensazione dello stomaco che arriva in gola. Preferisco le tazze. O le case del terrore.

Dei viaggi con la mia famiglia ricordo le urla quando ci perdevamo, i momenti passati a fare la pipì tra le macchine, abitudine che mi è ancora rimasta, e le canzoni cantate a squarciagola. Da mia madre ho imparato a non avere pregiudizi, a immergermi nel luogo ed entrare in empatia. Capirlo e farmi trasportare dal posto e dalla gente.

603544_4450052693915_1615757422_nQuanto abbiamo viaggiato, quanti chilometri abbiamo percorso. Anche quando Manu era a Roma, spesso eravamo solite partire in macchina. Le scene più belle si consumavano sulla 106, in particolar modo a Calopezzati, quando la pazzia prendeva il sopravvento e facevamo le pazze. Come non ricordare le cadute all’autogrill, sempre nello stesso. Quello di Campagna. Appena scese dalla macchina, forse per karma o forse per distrazione cadevamo come due pere.

735133_10200904961890788_2111176412_nLe cadute. Altre costanti dei miei viaggi. Ne ricordo una in particolare: eravamo a San Marino, ero solita salire sulle rocce, quelle vicino il castello. Amavo arrampicarmi, e amo farlo ancora. Spesso quando vado da mia zia a Davoli mi piace salire sugli alberi di arance per sentire il loto profumo. Comunque quella volta a San Marino sono scivolata da una piccola roccia. Il risultato? Una ferita al ginocchio, l’ennesima. Da piccola non ero proprio una “signorina”, una bambina amante delle bambole e dei trucchi, ero un maschiaccio. Amavo fare giochi da maschi e provare l’ebbrezza del pericolo. Per questo ero solita arrampicarmi nei burroni e camminare sulla parte esterna dei balconi.

Di San Marino ricordo le salite e la fatica per portare il passeggino. Io e Manu ci davamo il cambio per far salire Flavio, spingevamo il passeggino come dannate. Ricordo la stanza d’albergo con le piastre per cucinare e riscaldare le pappe di Flavio, ricordo i negozi e il clima. Gli stessi ricordi che ho provato quando ci sono tornata con Gabro. Dopo circa 20 anni. Lei, San Marino è rimasta uguale, quasi come se il tempo si fosse fermato ai miei circa sei anni. Nel 2009 a ogni salita mi giravo per cercare il passeggino da spingere. E solo dopo mi accorgevo di essere leggermente cresciuta. Sono risalita sulla roccia dalla quale ero scivolata, ed è stato come ritornare indietro nel tempo.

2449_1099467891389_936331_nLa stessa sensazione che ho avuto a Venezia. La laguna l’ho vista 4 volte. La prima ero piccola, rincorrevo i piccioni in piazza San Marco, con il mangime tra le mani che puntualmente gettavo in aria per vederli volare. Flavio era piccolissimo, piangeva come un dannato perché voleva scendere dal passeggino per rincorrere i piccioni. Ricordo la puzza della laguna, era estate e faceva caldo, molto caldo. Ricordo il ponte di Rialto e la città parallela una volta varcato quel ponte. Ho rivisto Venezia durante una gita con l’Accademia di belle arti. In quell’occasione abbiamo fatto il viaggio in treno. Nelle cuccette. Siamo arrivati a Milano, abbiamo visitato castello Sforzesco e poi di nuovo in treno per Venezia. Ci siamo emozionate davanti al ponte dei sospiri, per poi scoprire che il sospiro non aveva nulla di romantico, se non il passaggio del condannato verso la prigionia o la morte. Lì su quel ponte il condannato spirava, perché forse quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe visto le gondole, la laguna, il mare. Immaginavo lo stato d’animo di quella persona, e quello che avrebbe potuto vedere all’epoca dal ponte: le gondole in acqua, magari anche le barche reali.

La terza volta ho visitato la Laguna durante il Carnevale. Io e Gabro avevamo piccole maschere, nulla a confronto dei vestiti barocchi delle altre persone. In quell’occasione abbiamo attraversato tutte la calle, per poi arrivare in un piccolo bar vicino la stazione. Per poi muoverci in piazza San Marco, nonostante la pioggia era piena di gente. Tutti amici, come se si conoscessero dai tempi del Doge.

2449_1099467771386_7952683_nDi Vicenza ricordo il ricovero per anziani gestito da Tarcisio, un prete laico conosciuto a Crotone a San Francesco. È stato lui a trovarmi tutta bagnata, perché quel pomeriggio mentre mia madre giocava a tennis, avevo pensato di farmi il bagno vestita. Ed è stato lui a beccarmi con le mani piene di spine di rose che avevo rubato dal suo giardino. A Vicenza oltre al teatro, ricordo il nipote di Pascoli, un signore anziano che parlava del nonno come se fosse un eroe di guerra. E in quel momento ho pensato che mi sarebbe piaciuto conoscere bene uno dei miei nonni, essere presa in braccio come faceva il nipote di Pascoli con i figli dei suoi figli.

Insomma la mia infanzia è stata costellata di viaggi, tanti viaggi. Proprio da questi ho imparato ad adattarmi a qualsiasi cosa, all’acqua fredda degli alberghi, alla mancanza del bidet e delle comodità. In fondo viaggiare aiuta a crescere…

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