Un giorno quando il cielo è intristito e la natura si apparecchia per il lutto, senza tuttavia portare con sé pioggia o temporali, accade che la malinconia inizia a scorrere tra le vene. Lo fa come una specie di dissonanza musicale, con un ritmo alterato. Mentre fuori il vento soffia e tutto accade con un ritmo veloce, dentro regna la lentezza. Quella esausta da goccia d’acqua che cade di tanto in tanto nel lavello o nella vasca da bagno. Gli orologi sembra dimentichino il tempo, mentre un sottile spiraglio di luce cerca di invadere con forza la stanza. E la tristezza sospesa inizia a spargersi in ogni centimetro. È la malinconia.
Da piccola credevo che la malinconia non esistesse. Mi ero convinta che il senso di nostalgia per Cervara e la casa di Catona fosse semplicemente una specie di limbo in cui la tristezza e la lentezza convivessero tra loro, ma senza intaccare. Poi crescendo, viaggiando, facendo traslochi la malinconia si è personificata in una valigia. Chiusa e messa vicino la porta in attesa di partire. Ma non per un viaggio veloce e corto, ma per una nuova vita.
Oggi quando ho chiuso lo zaino mi è sceso un velo di malinconia. Pensando ai numerosi arrivederci detti a denti stretti e alla consapevolezza di non “vivere” con gli altri gli eventi e gli affetti. Come una vita in stasi, come una nave in mezzo al mare. Ferma tra la corrente mentre sulle sponde le cose accadono. È la consapevolezza di lasciare indietro pezzi di vita. E poi capisci che nella vita il saluto è fondamentale. Ci salutiamo spesso in un continuo circolo affettivo, perché siamo consapevoli che senza il saluto qualcosa possa svanire. E allora ci leghiamo ai saluti, agli arrivederci, agli addii per conservare l’idea di un ritorno e per tenerci ancorati a quel pezzo di realtà in cui siamo cresciuti e che ci ha fatto stare bene. Ma alla fine anche l’arrivederci più convinto è velato di malinconia.