È difficile non essere perseguitati dal proprio passato. Perché è composto da piccoli pezzi di mosaico che compongono la nostra storia. Il puzzle che diventa ciò che ci da forma, quello che ci guida. E la nostra storia, che voi la chiamiate passato, o bagaglio personale, torna sempre a galla. Perché per quanto ci impegniamo ad andare avanti e non guardarci mai indietro, il nostro bagaglio è lì in attesa. Con la sua etichetta svolazzante, così da ricordarci quello che siamo stati e quello che ci ha fatto diventare in un determinato momento. Ma se Gian Battista Vico ci ha insegnato qualcosa è che secondo i corsi e ricorsi storici chi dimentica il passato forse è condannato a ripeterlo. Pezzo per pezzo.
E se penso al mio mosaico, al mio bagaglio personale, mi viene in mente solo una parola: fuga. Sono stata e continuo ad essere la regina delle fughe. Spesso l’inquietudine mi invade, e inizio a diventare intollerante dello spazio chiuso, dell’abitudine, della quotidianità. È come se in me risiedessero due persone: il cittadino stabile e responsabile, e l’esploratore, colui che anela la ricerca di avventure e di eventi straordinari. Così ogni tanto capita che il mio esploratore cerchi di sopraffare il cittadino, e tenti di convincerlo ad andare in strada alla ricerca dell’avventura di turno. Ed è in quei momenti che l’esploratore prende in mano lo zaino della fuga. Ed esce di casa. Se c’è un elemento costante nella mia vita è proprio l’esploratore, colui che ha preso il sopravvento in numerose situazioni. Dalla scelta dell’università, al lavoro, passando per le amicizie e le relazioni sentimentali.
Ebbene sì sono la regina della fughe, dal dolore e dalla sofferenza, dagli impegni. Non sono mai stata amante delle responsabilità e dei legami, perché questi racchiudono il codice a barre dell’impegno e della programmazione. E se c’è una cosa che non riesco proprio a fare è programmare. Da qui la necessità della fuga. Anche dal lavoro. Per molto tempo mi sono voluta convincere che il mio cambio continuo di lavori fosse dovuto ai capi, alle situazioni insostenibili. Poi ho capito che non sono fatta per avere un capo che mi dice cosa devo fare. Perché mi sento in gabbia. Come con i programmi. Non chiedetemi di fare un programma, non ne sono capace. Da 33 anni rifuggo all’idea di dover programmare un pomeriggio, figuriamoci un evento. Non è nel mio Dna. In fondo non sono mai stata una persona pettinata, seria e affidabile. Non amo i programmi per rimanere in forma, l’idea delle diete e degli gli orari, che rispetto solo per lavoro.
E spesso, quando fumo una sigaretta e prendo il caffè, l’etichetta del bagaglio inizia a sventolarmi in faccia. In quel momento il passato diventa qualcosa che non può essere dimenticato, nonostante gli sforzi di prendere la scatola e infilarla in cantina e in soffitta. Ed è in quel momento che il passato diventa una cosa che vorrei dimenticare. Per poi imparare qualcosa di nuovo, che cambia inevitabilmente tutto ciò che so sul presente: la vita non è fatta soltanto di fughe ed evasioni, ma anche di soste e fermate. E in alcuni casi la cosa più coraggiosa che potrei fare è restare.