
In viaggio a bordo di un van tra parcheggi e pregiudizi. Ma non è il solito on the road fatto di scoperte e di divertimento, è la storia di Fern. Perché lei, personaggio che condensa le mille anime dei nomadi moderni, è la protagonista indiscussa di Nomadland, il film vincitore del premio Oscar scritto, diretto, co-prodotto e montato da Chloé Zhao.
Nella pellicola, tratta dal libro inchiesta omonimo di Jessica Bruder, Fern viaggia da una parte all’altra degli Stati Uniti per lavorare, lei che all’età della pensione si ritrova a svolgere attività in grandi centri di distribuzione, in un autogrill e in un campeggio. In breve tempo passa dai campi di lamponi in Vermont a quelli di barbabietole in Minnesota, transitando per i campeggi fino agli impianti di E-commerce, senza mai perdere la propria identità.

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Nel film e ancora più nel libro emerge una nuova categoria, quella dei “workamper”, i nuovi nomadi che al pari di Tom Joad e dei protagonisti di Furore si spostano alla ricerca di una nuova vita. I nomadi raccontati nel libro di Bruder sono americani disillusi come gli stessi pionieri di John Steinbeck che tuttavia cercano una nuova meta in cui mettere radici. Ma la strada percorsa settimana dopo settimana dai workamper non è la Nuova Frontiera, ma è una ricerca interiore, un continuo viaggio tra le strade americane alla ricerca della libertà. Perché i nomadi, solidali tra loro ed emarginati dal sistema, hanno inventato un modo per fottere il sistema, “hanno rinunciato alle tradizionali quattro mura, rompendo le catene di affitto e ipoteche. Si sono trasferite in furgoni, camper e roulotte, spostandosi da un posto all’altro alla ricerca del clima mite, e riempiendo i serbatoi coi lavori stagionali”, scrive la giornalista.

E se i Joad auspicano un ritorno alla vecchia vita, quella prima della Grande Recessione, i vandweller vogliono rimanere a vivere nei propri van. Perché non vogliono rimanere incastrati tra reddito, mutuo, conto in banca. Fottuti dal sogno americano hanno deciso di inventare un nuovo modo di vivere fatto di soste brevi. E quando la solitudine inizia a prendere il sopravvento ecco il Rubber Tramp RendezVous, un ritrovo che, ispirato ai momenti di comunione dei montanari del diciannovesimo secolo alla fine della stagione delle pellicce, richiama decine di workamper per fornire consigli, oggetti e perché no, anche compagnia. C’è chi invece sogna di mettere radici e di costruire una casa completamente sostenibile e indipendente, è Linda May la donna che Bruder ha seguito per settimane e mesi per scrivere il libro. Linda è una 64enne dai capelli grigi, che vive viaggiando su un 28 piedi, e che sogna di costruire Earthsip, una casa completamente autonoma e realizzata con elementi di scarto in un pezzo di terra acquistato con grandi sacrifici.

Nel libro Nomadland i mille volti incrociati dalla giornalista raccontano le proprie storie, fatte di crisi, perdite, lutti. Sono uomini e donne che, vicini all’età della pensione, accettano ogni lavoro per sopravvivere e vivono a bordo di mezzi a 4 ruote. Le loro case hanno nomi di vecchie rock star o band, hanno pannelli solari e interni personalizzati a seconda delle singole esigenze.
A causa della crisi e delle pensioni così esigue da non coprire neanche una pulizia dei denti, le persone raccontate da Bruder parlano della propria vita all’interno di pochi metri quadrati in campeggi e in parcheggi, alla ricerca del lavoro di turno per tirare a campare, mentre sono considerati dal resto della popolazione come senza tetto.
Ma i nomadi moderni sono senza casa, un tetto ce l’hanno ed è quello dei mezzi su cui vivono e si muovono. In un “girovagare” quasi infinito che nasce dalla sconfitta del capitalismo, dall’incapacità dello Stato di salvaguardare i suoi cittadini e di poter garantire loro equa protezione sociale e sanitaria e il pensionamento.

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Si incontrano online, fanno rete nei luoghi di lavoro occasionali, e si accampano nei parcheggi più tolleranti, anche se gli spazi sconfinati del deserto sono i luoghi preferiti per risedere il tempo di 2 settimane. Ecco che il “sogno americano” del self made man si infrange contro le difficoltà dei workamper costretti a ricominciare ogni giorno sul filo della “bread line”, la sottile soglia di mantenimento di chi decide di destinare ogni singolo centesimo per pagare le spese.
Nel film di Zhao non c’è spazio per la contestazione, ma solo per la storia di Fern per il suo viaggio iniziato sulla strada alla volta del lavoro stagionale in un’azienda e si chiude sempre lì, sulla strada. Ma nel corso di questo viaggio Fern incontra amici, conosce nuove persone, si riconcilia con se stessa e fa tappa a Empire. È qui che i sogni americani della donna sono svaniti. È qui che si è ammalato il marito, poi morto, ed è qui che ha perso la sua abitazione ed è da qui che è partita con i piatti di ceramica del padre per affrontare la sua nuova vita.

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Miglio dopo miglio, scopre i territori degli Stati Uniti e si imbatte in piccole comunità, raggiunge il Badlands National Park, nel South Dakota. Qui la natura regala particolari formazioni rocciose: i calanchi, nati da secoli di erosione.

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Arriva nel Custer State Park, riserva naturale nelle Black Hills, ovvero il più grande parco statale del South Dakota, che prende il nome dal tenente colonnello George Armstrong Custer. Qui tra una tazza di caffè e un’escursione è possibile scorgere bisonti, ma anche coyote, giaguari, cervi.

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Fern attraversa la Needles Highway, la Highway 44, sulla quale si muove per raggiungere Scenic e Wall dove fare lavori saltuari per mettere da parte denaro.

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Fa poi tappa in Arizona e California e infine sull’oceano. Nel film si intravedono il Point Arena nella Contea di Mendocino County, una delle più piccole cittadine californiane con il suo iconico faro, e la selvaggia San Bernardino National Forest, con i suoi paesaggi scenografici, simbolo assoluto di libertà.

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