
Sospeso tra il verde più inaccessibile e misterioso dell’Aspromonte si trova un grappolo di case, strette le une alle altre. È il centro di Roghudi, paese fantasma della provincia di Reggio Calabria nato a 519 metri di altitudine. Qui, a pochi passi dalla fiumara dell’Amendolea (la più estesa della regione che parte dalla diga del Menta e finisce il suo percorso a mare, a Condofuri), fino al 1971 vivevano 1.650 persone.
Oggi lungo le stradine che circondano le case abbandonate del vecchio borgo si respira un lungo e infinito silenzio, e un “sonno” atavico sembra essersi impossessato del piccolo borgo. La quiete del centro, arroccato su un’altura come un’antica fortezza inespugnabile e circondata da caverne e abissi, è interrotta solo dalla voce roca della fiumara che scorre ai suoi piedi.

Abitato fino ai primi anni Settanta, il borgo si è spopolato tra il 1971 e il 1973, a causa di alluvioni e frane che hanno messo a rischio la vita degli abitanti. A seguito di piogge torrenziali che hanno provocato morte e distruzioni, il sindaco Antonio Romeo ha firmato un’ordinanza di sgombero coatto. La decisione però non ha incontrato il favore di tutti i residenti, che hanno resistito per altri due anni, fino a quando un’altra violenta alluvione li ha costretti ad abbandonare le proprie case. I cittadini si sono trasferiti e una lenta diaspora li ha portati in diversi comuni del circondario fino a quando, 17 anni dopo l’ultima alluvione il nuovo paese è stato ricostruito a 40 chilometri di distanza da Roghudi Vecchio. Il nuovo abitato è infatti nato nel comune di Melito Porto Salvo.

Un allontanamento che tuttavia non ha intaccato il senso di appartenenza dei cittadini, custodi di una lingua antica e remota: il grecanico, nato dalla mescolanza tra l’antico greco dei territori della Magna Grecia e il dialetto calabrese. Nel fine settimana i cittadini risalgono le strade per ritornare nel borgo, perché qui, tra le case diroccate e diventate tane di animali, si trova la piccola chiesa di San Nicola. La struttura è diventata un luogo sacro che conserva tutto il suo stile contadino. Al suo interno si trova una croce in legno e diverse immagini votive, che sono diventate il segno tangibile della presenza umana che non intende abbandonare questo luogo. Tra fine giugno e inizio luglio gli “esuli” si riuniscono nel paese vecchio in occasione dei festeggiamenti di Maria santissima delle Grazie.

Presenza umana tangibile anche nelle case, dove ancora si trovano mobili, bottiglie e suppellettili. Spesso le pareti di cemento armato si alternano a muri antichi, saracinesche arrugginite a balconi tinti. E all’interno delle case è possibile scorgere macerie, materassi, e vegetazione che cresce indisturbata.
Come nell’abitazione di Leone Pangallo, l’ultimo “abitante” di Roghudi morto nel 2013. Qui ogni cosa è rimasta al suo posto, come se il tempo si fosse fermato. Così la cucina, il camino, il letto, il tavolo, i piatti e perfino la caffettiera sembrano vivere in un limbo, mentre la polvere e i calcinacci ricoprono ogni superficie.

Sui muri delle abitazioni è facile scorgere grossi chiodi, e si dice che a questi fossero assicurate delle corde che servivano per legare le gambe dei bambini. Non era una punizione ma una protezione, dal momento che in questo modo le donne del paese evitavano che i bambini potessero cadere in fondo alla vallata. La leggenda vuole che nelle notti di luna piena si sentano i lamenti dei bambini provenire dai dirupi.
Nelle case, le cui porte sono sfondate, come i soffitti spesso crollati, è facile percepire venti di tempi passati, di vecchie leggende greche che si tramandano tra i più anziani.

Come la leggende delle Naràde, figure mitologiche con due piedi di asina e due di essere umano. Nei racconti grecanici abitavano i boschi e le montagne, ed erano solite apparire durante la notte con l’intento di attirare le donne del paese, convincerle ad andare al fiume a lavare i panni per ucciderle. Le figure assumevano spesso la voce di familiari o conoscenti. L’obiettivo era quello di circuire gli uomini del borgo per accoppiarsi. Le uniche donne che venivano risparmiate erano quelle che offrivano loro latticini per cui le Nerade andavano pazze. Per proteggersi dalle irruzioni gli abitanti costruirono tre cancelli, collocati in tre differenti entrate del paese: uno a “Plachi”, uno a “Pizzipiruni” e uno ad “Agriddhea”.
Anche la strada che da Bova porta ai piedi dell’Aspromonte è avvolta dal silenzio. Qui si incrocia “U passu da zita”, dal quale si abbraccia l’area grecanica, i borghi di San Lorenzo e Pentedattilo, la fiumara dell’Amendolea e anche il vulcano Etna. La leggenda vuole che una ragazza di Africo, promessa a un signorotto di Bova, durante il corteo nuziale, preferì lanciarsi dal ponte. Da quel momento in poi sarebbe nata la rivalità tra i due paesi.

A circa 20 chilometri dal borgo si trova la rocca del Drako. Si tratta di un monolite sul quale sono stati incisi tre cerchi che guardano ad est, sulla cui origine sono stati effettuati diversi studi. Secondo un mito nella roccia avrebbe soggiornato un Drako, un gigante diventato custode di un antico tesoro raccolto dai briganti. Secondo la leggenda, Drako soleva allontanarsi dalla dimora per consumare la cena nelle vicine sette Caldaie. Chiunque si fosse avvicinato a colpire la rocca o a cercare di recuperare il tesoro, sarebbe stato ucciso e spazzato via da un forte vento.
Un’altra leggenda racconta di un drago affamato e crudele capace di provocare frane se non fosse stato assecondato nelle richieste di cibo. Secondo un’altra leggenda il tesoro custodito dal Drako sarebbe stato donato a chi avesse sacrificato tre esseri viventi di sesso maschile: un capretto, un gatto nero e un bambino appena nato. Il giorno in cui nacque in paese un bimbo malformato e rifiutato dai genitori, due uomini provarono a sacrificarlo assieme al capretto e al gatto, ma quando toccò al neonato, una tempesta di vento raggiunse i due che furono scaraventati contro la roccia. Uno morì, l’altro, sopravvissuto, fu perseguitato dal diavolo sino alla sua morte. Da quel momento nessuno osò più sfidare il drako.

A pochi passi dalla roccia si trovano le Caldaie del latte, formazioni geologiche calcaree, di roccia sedimentaria. Secondo la leggenda, le caldaie avrebbero prodotto un liquido simile al latte adatto a sfamare il drago. Il nome caladaie deriva da caddare, che sono le grandi pentole che una volta venivano usate per cucinare e che oggi si usano per preparare le frittole.
Questi luoghi hanno un incredibile fascino. Vorrei tanto visitarli.
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Hai ragione, sono posti incredibili…
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