
C’è un prima e c’è un dopo, e in mezzo un invisibile spartiacque. Il mio si chiama tep. Tutto è iniziato in un caldo pomeriggio di aprile quando, dopo un pranzo al ristorante sotto casa con il mio più caro amico e la sua dolce metà, i 46 gradini che separano l’ingresso del palazzo dalla porta del mio appartamento sono sembrati tanti, tantissimi. Quasi fossero una lunghissima e lentissima ascensione verso il monte Everest.
Mentre il fiato si accorciava così tanto che l’aria sembrava rarefatta, il collo pulsava e i battiti correvano. Ecco in quel momento, quando bramavo aria e ossigeno, ho capito che qualcosa non andava. Poi la chiamata alla guardia medica, l’arrivo del 118 e il trasporto in ospedale tra battute e racconti con i ragazzi dell’ambulanza.
In pronto soccorso tra tac, buchi nelle braccia, analisi ed esami i medici hanno fatto la loro diagnosi: trombo-embolia polmonare massiva. Un coagulo di sangue del trombo che si era formato in una vena profonda della mia gamba si è staccato e si è posizionato nei polmoni.

Era il 23 aprile. Sono entrata in pronto soccorso con un giaccone invernale e sono uscita dopo 9 giorni con una felpa e le maniche corte. In reparto, tra pazienti anziani e infermieri giovani e gentili, i giorni sono stati scanditi da analisi, prelievi, medicine e misurazioni di pressione e saturazione, ma anche ecocardiogrammi ed altri esami.
Ho letto, ho ascoltato musica e visto serie tv, ho scherzato con gli infermieri e gli oss, ma anche con i medici e gli specializzandi, senza mai disperarmi o perdere la calma, neanche in pronto soccorso quando ho capito di avere un’embolia. E mentre fuori la primavera aveva cominciato a sbocciare, amici e parenti erano paralizzati dalla preoccupazione e dalla paura. In una lunga attesa nella ricerca tra diagnosi e spiegazioni. Più loro si preoccupavano, più ero calma e lucida. Mentre mi vedevano con l’ossigeno e piena di aghi nelle mani e nelle braccia, io ridevo e sorridevo.
In reparto ho iniziato a chiedere aiuto e ho imparato a farlo. Avevo bisogno di aiuto per aprire le confezioni del cibo, per andare in bagno, per pulirmi e lavarmi i capelli. E qui ho capito che non c’è vergogna a chiedere aiuto, ho imparato a rallentare e a rimodulare ancora una volta la mia vita. Ancora e ancora, in un ciclo infinito di giorni, settimane e anni. Sì perché da qualche anno “convivo” con la fibromialgia e per questo rimodulo la mia vita giorno per giorno.
In quelle lunghe ore in Utic, durante le quali ho riso e scherzato, o come dicono Gabro, Flavio e Manu ho “regalato serenità” a chi veniva a trovarmi invece di “riceverla”, ho imparato a regalarmi del tempo e a coltivare la pazienza e l’affetto, pur sapendo che, per una persona impaziente come me, sarà difficile. Perché pure essendo consapevole che la vita vada vissuta un passo alla volta e giorno per giorno, sto imparando a frenare e ad aspettare.

Da quel 23 aprile ho capito anche che alcune persone possono essere fredde e distaccate, e possono anche parlare a sproposito senza essere capaci di empatizzare. Per queste persone l’unica costante della vita sono loro stesse, tanto da non riuscire a vedere oltre il loro piccolo orticello. Ma altre possono regalarti il loro tempo e i loro sorriso, e a loro non finirò mai di dire grazie.
E oggi a due mesi e qualche giorno dalle mie dimissioni è come se vedessi per la prima volta. Sono cambiata. In fondo c’è un prima e c’è un dopo, e in mezzo lo spartiacque. Nel mio caso è stata la possibilità di non poter più essere qui e la consapevolezza di poter vedere ogni giorno il sole sorgere, e quindi di dare il giusto peso alle cose.
Mi sento più libera e serena, e piano piano sto iniziando a disinnescare le situazioni tossiche e potenzialmente esplosive senza provare senso di colpa. Le situazioni tossiche passano nella mia vita e io riesco a non farmi sfiorare. Ho iniziato a farmi scivolare le cose, a tagliare i rami secchi e a non dedicare più tempo a cose e persone che entrano nella mia vita solo per caso, ho iniziato a rimodulare le relazioni e a dedicare tempo agli affetti e alle cose che mi fanno stare bene. In una lunga e lenta ricerca dell’equilibrio, quell’equilibrio che per tutta la vita ho evitato vivendo di eccessi e di alti e bassi.
Ora sto bene, la frequenza e il fiato vanno molto meglio, sono meno stanca e le giornate sono scandite dagli orari per prendere le medicine e infilare le calze compressive. Purtroppo il trombo, che ho ribattezzato Trombino Pompadour è ancora lì, ma sto bene. Ogni giorno al risveglio, prima di infilare le calze, mi guardo intorno e penso di essere fortunata. Perché sono ancora qui.