Da bambina la felicità aveva il rumore della carta dei regali strappata e dell’uovo di Pasqua che si rompeva per mostrare il regalo. La felicità era fatta di urla di gioia e risate con i miei fratelli e mia madre. Poi crescendo il rumore della felicità ha iniziato ad affievolirsi, a un certo punto, come succede in qualsiasi vita, la felicità aveva iniziato ad avere il suono del silenzio. Non quello sordo e spiacevole di una casa vuota o dell’eco di una stanza ormai sgombera, ma quello fatto di piccoli rumori appena percettibili, come la goccia che cade dal rubinetto, o il cinguettio degli uccelli fuori dalla finestra.
Nelle giornate di grande stress ed eccessivo rumore di fondo, come quello dei telefoni e della strada, desideravo il silenzio. Spesso rotto da un pezzo del Metallica o degli Ac/Dc. Perché la semplice idea di essere la persona in grado di accendere il pulsante del rumore e del silenzio mi metteva calma e serenità. Nonostante all’università fossi sempre al centro di rumori, quello dei professori, della nave, degli studenti, o dei telefoni delle redazioni in cui ho iniziato a muovere i primi passi, ho sempre avuto la necessità di chiudermi nella mia “dimensione” fatta di piccoli rumori. E c’è stato un punto, alla fine degli studi in Scienze della comunicazione, che un semplice trillo di telefono era capace di scatenarmi una reazione di fuga tanto veloce, quanto il trillo stesso del telefono.
Così per anni ho inseguito l’idea del silenzio, che in realtà era il rumore di sottofondo che riusciva a darmi un vago senso di felicità. Come quando passeggiavo in solitudine, o come quando andavo completamente da sola al mare. In quel periodo avevo la necessità di stare da sola in compagnia del rumore dei miei pensieri e dei passi sul molo quando a fine settembre, in attesa di riprendere l’università, correvo spinta dalla brezza marina.
Ma un giorno facendo alcune ricerche ho scoperto che Trenitalia ha un vagone di un treno veloce dedicato interamente al silenzio. C’è gente che paga per salire in uno spazio asettico senza suoni o rumori. Ma credo che sia sempre meglio della camera anecoica negli Orfield Laboratories, in cui vengono assorbiti il 99,99 per cento dei rumori. E se fino a questo momento nessuno è riuscito a resistere per più di tre quarti d’ora, è certo che coloro che hanno deciso di varcare la porta si sono sentiti male. Secondo uno dei responsabili del laboratorio “le persone si orientano normalmente col suono e i rumori quando si muovono. Tuttavia, questa camera anecoica è priva di tutte queste informazioni. E l’esperienza extrasensoriale può risultare disorientante e inquietante”. E l’assenza di suoni anche.
Ora le cose sono diverse. Sono sempre amante dei momenti di solitudine, ma ogni istante deve essere accompagnato dai suoni. La mattina inizia sempre con il rumore del caffè che esce dalla macchinetta, dalla sigla del telegiornale e dai clacson delle auto in giro per Milano. Il giorno prosegue poi con la musica che accompagna l’allenamento per la schiena, il lavoro, la corsa.
A causa di un piccolo infortunio ho dovuto interrompere gli allenamenti. Ma ho camminato, quanto ho camminato. Mi sono lasciata immergere nei rumori della città e della natura. Lungo l’Adda mi sono lasciata trasportare dalla corrente del fiume e dal canto degli uccelli. E in città mi sono immersa nello stress regnante tra le vie di Milano. Ma sono sincera, la corsa mi è mancata. Così come il rumore dei miei passi. E se oggi dovessi pensare al rumore della felicità penserei subito alla macchinetta del caffè, al rumore della caviglia di Gabro e al rumore dei passi sulle foglie.