Da piccola sognavo di diventare un’archeologa, all’Indiana Jones maniera. Con la frusta in mano, in giro per il mondo a fare scoperte sconvolgenti. Mi sarebbe piaciuto varcare la soglia del monumento di Petra e trovare reperti. Mi sarebbe piaciuto vivere l’avventura come nei film di Harrison Ford. Poi ho capito che quelle avventure erano solo sulle pellicole.
Per questo con il passare del tempo ho abbandonato quel sogno. Ero alla continua ricerca di avventura, la stessa che credevo di trovare se avessi lavorato con i delfini, le balene, le orche e gli squali. Cercavo università che aveva corsi di laurea in biologia marina e oceanografia. E quando al liceo tutti i miei compagni hanno iniziato a scegliere l’università e i corsi di laurea da seguire, ho fatto la preiscrizione in biologia marina a Messina. Ma sapevo già che non avrei mai varcato la porta di scienze biologiche, no, non io. La scienza cozzava con la mia visione romantica della vita e del lavoro.
Così armata di passione per l’arte mi sono iscritta all’Accademia di belle arti. Ho studiato, ho disegnato, e quanto ho disegnato. Ogni luogo era buono per finire i disegni di anatomia, gli schizzi dei femori e delle tibie. Ma sentivo che mi mancava qualcosa. Mi sentivo a metà. Avevo capito che il mio sogno non era dirigere una galleria d’arte o esporre i miei quadri, cosa per la quale sono sempre stata un po’ restia. Perché l’idea di mettere a nudo quello che sentivo su una tela mi inquietava. Proprio in quel periodo in cui mi chiedevo che avrei fatto dopo la laurea ho fatto un incontro fondamentale. Un professore, all’epoca insegnava fenomenologia delle arti contemporanee. Un giorno mi ha detto: “Sei sicura di voler fare l’artista? Secondo me hai sbagliato corso di laurea. Sei nata per scrivere d’arte”. E quel giorno uscita dall’aula ho preso una decisione. Mi sarei iscritta a Scienze della comunicazione.
L’ho fatto. Ho conosciuto persone speciali, le stesse che mi porto nel cuore. Ma oggi mi chiedo se sia stata la strada giusta da inseguire. E quando la scorsa settimana, ascoltando Alfredo in radio che ha fatto un “monologo” sui sogni e sull’idealismo, il sogno mi è piombato addosso. Ho cominciato a pensare che forse avrei dovuto seguire un’altra strada. Magari quella dell’archeologa, quella della biologa, o come sognava papà quella del medico. Mi ripete spesso che sarei stata brava “non svieni, guardi senza avere problemi, sei coraggiosa”. Ma non ha tenuto conto di una cosa: dell’emotività. Credo che se avessi fatto il medico avrei pianto. Quanto avrei pianto. Eppure oggi mi capita di spulciare sul sito dell’Unimi per dare un’occhiata ai corsi di laurea in medicina. Ma alla fine mi convinco che la strada fatta è stata quella giusta. Se immagino la mia vita tra dieci anni, mi vedo sul balcone alle 6 di mattina a sorseggiare il caffè mentre si alza il sole. Mi immagino giornalista, perché è la cosa che mi piace fare e che so fare.
Ma rispetto a dieci anni fa, qualcosa è cambiato. Perché diciamocela tutta noi giornalisti facciamo questo mestiere per avere il nostro nome sul giornale. Siamo così legati all’idea di dare un buco al collega e al concorrente di turno che spesso dimentichiamo una cosa importante: le persone. Non solo quelle di cui parliamo quando scriviamo, ma anche quelle che ci leggono. Abbiamo dimenticato la nostra umanità, quella che ci fa fermare davanti il dolore e lo scoop. Questo l’ho capito due anni fa, quando ho cambiato vita. Anche se per poco tempo. In quel periodo della mia vita, lontana dalle conferenze stampa e dalle beghe sterili, ho capito che non ero più interessata alla firma. E oggi, che ho ripreso a fare la giornalista, mi infastidisce mettere il nome sui pezzi e rincorrere le notizie. Preferisco dedicarmi alle persone, alle loro storie.
Oggi i miei sogni sono più piccoli, sono piccole mete che amo raggiungere. E quando non ci riesco mi siedo a pensare e ad apprezzare quello che ho, quello che ho fatto e quello che ho lasciato indietro.
È strano, perché da bambini facevamo sogni in grande. Poi crescendo abbiamo ridimensionato i nostri sogni, quasi volessimo ridimensionare le nostre aspettative. Troviamo quindi il sogno nelle cose che abbiamo accanto, nei libri, nella musica, nei film. Cominciamo a credere che i sogni in grande siano irraggiungibili e che sia meglio farli a letto, quando iniziamo a creare castelli in aria o mentre dormiamo. Da piccola non credevo che avrei fatto la giornalista, non credevo che mi sarei trasferita a Milano e non credevo di passare gran parte della mia vita senza mia madre.
Non capiamo tuttavia che abbiamo una cosa importante: la libertà. È grazie a lei che possiamo diventare qualcosa di diverso da quello che siamo. La libertà in fondo ci consente di sognare e i sogni sono il sangue della nostra vita, anche se spesso costano un lungo viaggio e qualche bastonata.