Tra arte e utopia, in giro per Gibellina


Bella, visionaria e utopista
. Questi gli aggettivi per descrivere una cittadina che appena progettata sembrava troppo. Per la Sicilia degli anni Settanta, per l’entroterra della regione che aveva perso intere cittadine per colpa di un terremoto, e per il senso della tradizione di quella terra che faticava e che continua faticare per uscire dagli schemi della storia.

Così dagli anni della sua fondazione, Gibellina sembrava già una città incantata. Il vecchio borgo è stato distrutto dal terremoto del Belice, quando il 14 gennaio 1968, la terra ha tremato così forte da far venire giù palazzi e case. Poi è iniziato il calvario della ricostruzione.Quello stesso calvario fatto di tendopoli, baracche, migrazioni e denunciato dagli intellettuali dell’epoca, Leonardo Sciascia in primis.

Proprio in quel frangente, quando i cittadini faticavano a rialzarsi, il sindaco dell’epoca, Ludovico Corrao, intellettuale e senatore, ha deciso di richiamare a se architetti e artisti. Il suo progetto era semplice: ricostruire Gibellina. Ma lontano dal fulcro originario, perché la cittadina, lassù sui monti, era rimasta ferma al tempo del feudatari.

E Corrao per la propria cittadina aveva in mente qualcosa di diverso: un universo utopico fatto di case e opere d’arte in giro per la città. Corrao non voleva fare altro che creare ex novo una città che fosse al tempo stesso un museo all’aperto.  Voleva una città nuova da mettere a disposizione dei suoi abitanti.

Inizia quindi la ricostruzione. E inizia quella che sarebbe dovuta essere la nuova era di Gibellina. Ma questo è rimasto solo sulla carta, solo su quei progetti urbanistici fortemente voluti dal primo cittadino. Oggi Gibellina si apre al turista e all’amante dell’arte, ma si chiude davanti allo sviluppo.

Sì, perché tra le opere architettoniche sparse in giro per la cittadina regna la sporcizia e la trascuratezza. Oggi quelli che erano i simboli della rinascita, non sono altro che gusci vuoti di una cultura che avrebbe dovuto rilanciare il borgo e che invece ha finito per far implodere la stessa cittadina. Le case sono chiuse, e forse anche le idee dei suoi pochi cittadini. Gli stessi che lavorano fuori dal centro di Gibellina e che ogni giorno viaggiano lungo le strade siciliane.

E qui nella nuova Gibellina non c’è niente che richiami il borgo, che riporti anche solo per un momento all’impianto classico della città italiana. Qui a pochi passi dai parchi archeologici più belli della Sicilia e del mondo, ci si sente alieni. Perché manca tutto. Manca il centro, manca la piazza piccola e raccolta su cui si a affacciano il bar, il negozio di alimentari, il municipio, la chiesa e magari qualche circolo, di quelli con le sedie fuori occupate solo da uomini.

Esiste la strada, ed è suddivisa in una doppia rete: quella pedonale e quella carrabile, disposte in una doppia griglia sulla pianta della città: le macchine restano all’esterno delle vie residenziali, disegnate da case unifamiliari e da spazi da vivere in comune, senza pericoli e inquinamento. Sul retro, l’accesso ai garage, uno per ogni casa, e al tra co, che guida fino al palazzo del municipio, disegnato da Vittorio Gregotti, Giuseppe e Alberto Samonà, e alla sua  piazza. Qui c’è anche un campanile  che intende segnare il trascorrere del tempo, ma senza orologio. Non c’è, la struttura è soltanto un cono sulla cui cima escono due ali colorate, mentre al suo interno ci sono altoparlanti e non campane. Realizzata da Alessandro Mendini è una scultura più che un segna-tempo, è un simbolo.  Di Gibellina.

La stessa entrata sembra precludere il destino di Gibellina. Lei, la Stella del Belice, disegnata da Pietro Consagra e realizzata dagli artigiani e dagli operai del posto, diventa il monito del territorio che auspica di diventare “altro”, quasi  voler seguire l’invito di Sciasia ad appena 10 giorni dal sisma di dover “fare tutto quello che non è stato fatto prima. A qualsiasi costo”.

E forse quel costo Gibellina non lo ha ancora pagato. Sembra essere rimasta imbrigliata nel progetto di città ideale e utopica, la Pienza siciliana per intenderci, in cui la cultura sembra perdersi tra gli spazi. Gli stessi spazi che sono stati ordinati nella visione metafisica del Sistema delle Piazze, l’opera architettonica progettata da Franco Purini e Laura Thermes. Sono  cinque le piazze contigue tra di loro. L’accesso principale segue gli spazi che sono completamente vuoti di vetri e scale. All’interno solo un giardino di palme, in una visione che riprende il progetto di un condominio in piena città.

In macchina arriva anche al teatro progettato da Consagra che, tuttavia, non è stato mai terminato. Il motivo? La fine del denaro. Così nel suo cemento trasandato, si impone come un vecchio animale, spalleggiato dal Meeting, altra creazione di Consagra, proprio alla destra del teatro: ne riprende i volumi e le linee sinuose, ma in misure ridotte. È uno spazio per i convegni, proprio di fronte alla scalinata che porta alla Chiesa Madre.

Ed è questa la struttura simbolo di Gibellina. Il luogo tanto agognato dai terremotati che, subito dopo il sisma, volevano un luogo in cui poter pregare e piangere le proprie vittime. È nata quindi la struttura è stata progettata da Ludovico Quaroni, con Luisa Anversa e Sergio Musumeci nel 1972 con un’idea fuori dagli schemi. Pensate a un luogo di preghiera che sia il più accogliente possibile, uno spazio geometrico fatto di quadrato e una sfera in cui accomodarsi e ascoltare la funzione. In un gioco di aperture per dominare il cielo e abbracciare con lo sguardo la città. Completata nel 1987, è stata collaudata  nel 1989, poi nel 1990 e nel 1992 il direttore dei lavori e il collaudatore statico si sono accorti che le teste dei pilastri presentavano lesioni preoccupanti. Così il 14 agosto del 1994, il tetto è crollato. La struttura è stata ristrutturata nel 2002 per tornare agibile otto anni dopo.

Oggi la vecchia Gibellina, è diventata una vera e propria opera d’arte. Nel gennaio 1968 Alberto Burri ha deciso di rendere eterna la vecchia cittadina. Ha infatti creato un enorme cretto bianco, ha cioè fatto una colata di cemento sui resti della vecchia Gibellina.  I blocchi di cemento richiamano dunque le spaccature della terra nei letti asciutti dei umi, ma anche le strade del paese, gli incroci e le case: nel cretto si cammina tra le pareti, alte quasi quanto un uomo.

Poi, c’è il Baglio Di Stefano. Fu la dimora di un feudatario, inaccessibile ai contadini, poi trasformato nella sede del Museo delle Trame del Mediterraneo e del Festival Orestiadi (oggi Fondazione). Completano il sogno di Ludovico Corrao: il primo fa dialogare gli artisti del Mare Nostrum e il secondo presenta spettacoli tra teatro, danza e musica, pensato e voluto da quel sindaco battagliero, che trascorse la vita tra le arti come un mecenate di un tempo.

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